Cecilia (la poesia)
Si trova, dicevamo in questo capitolo 34, dopo pagine e pagine di eventi e di quant’altro penna umana abbia mai saputo raccogliere in un sol libro, il secondo vero e grande momento di pura poesia di Manzoni dopo il celebre “addio ai monti” che chiudeva il capitolo 8. Ma, sia consentito di dirlo, per quanto meraviglioso neppure quel lirico saluto alle proprie terre assurge alla grandezza poetica di questo pezzo, giustamente celebrato da tutti i più accreditati commentatori del novecento.
A parte la straordinaria bellezza del quadro, sapientemente collocato tra tante circostanti brutture, non credo possa esservi lettore, neppure tra i più scafati, in grado di respingere, alla prima lettura, quella “commozione straordinaria” che due righe dopo Manzoni attribuisce a quel suo Renzo, unico ed involontario testimone di una siffatta scena.
Si tratta, io credo, di una delle più belle pagine della letteratura mondiale, così misurata ed al contempo devastante ed in grado di trasportarci, in un modo così triste ma al contempo immensamente felice, entro il mistero della ineguagliabile intensità dell’amore materno.
“Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori….”
Al termine di questa, si immagina, proficua lettura, propongo due “paralleli” che quivi si colgono a mio parere in modo evidente.
La ben diversa scelta della aggettivazione mostra infatti la straordinaria capacità del narratore nel significare al lettore la peculiare differenza dei personaggi cui….si rivolge:
1) la descrizione dei volti di Gertrude e della mamma di Cecilia:
Gertrude al capitolo 9:
Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.
La mamma di Cecilia al capitolo 34:
una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta.
Potrebbero avere la medesima età e puranco la medesima avvenenza segnata da tormento e sofferenza, le due donne in questione.
Ma la bellezza di Getrude è “sfiorita” mentre quella della mamma di Cecilia è “non trascorsa”, e se quella della prima appare, a chi la osserva, già “scomposta”, quella della seconda appare ancora “non guasta”….
2) La aggettivazione della diversa “emotività” dell’ Innominato e di Renzo:
L’innominato al capitolo 20
una solitudine “tremenda”
Renzo al capitolo 34
una commozione “straordinaria”.
Anche qui, si badi, il lettore si trova a dovere affrontare un momento di altissima quanto intima emotività di due personaggi di forse pari intensità, eppure la solitudine di quell’uomo non ancora toccato è “tremenda”, mentre la commozione di Renzo è….”straordinaria”, il permanente “giudicare” del Manzoni trapela anche e soprattutto nella compiaciuta scelta di certe aggettivazioni piuttosto che di altre.
da “I promessi sposi in cialdoni” di davide steccanella, 2005